Intervista a Giovanna Frisoni
Intervista a Giovanna Frisoni
Ultima modifica 2 marzo 2024
“Abbiamo attraversato diverse fasi. La prima emergenza del lockdown del 2020 ha dato modo alla scuola di rispondere in tempi relativamente brevi, perché passate le prime due settimane, durante le quali abbiamo cercato di capire cosa stava succedendo, ci siamo subito organizzati con la didattica a distanza. Devo dire che c’è stato un buon fermento da parte della comunità scolastica: i docenti si sono attrezzati con le lezioni a distanza e l’utilizzo delle piattaforme digitali, con la voglia di non abbandonare i ragazzi, di far sentire che la scuola c’era. Poi è subentrata una fase di stanchezza rispetto a questa modalità e la voglia di riprendersi la scuola in presenza. Nell’ultimo anno ho vissuto una didattica molto ingessata a causa del distanziamento e delle rigide procedure da seguire. I lavori di gruppo sono stati banditi, i banchi separati… è stato molto faticoso, ma fortunatamente ora siamo tornati quasi alla normalità, ipotizzando anche le uscite di fine anno e mettendo in cantiere nuovi progetti”.
Avete trovato, in questo periodo così complesso, anche qualche nota positiva, un’opportunità di miglioramento?
“Sì, faremo tesoro di ciò che questa situazione ci ha lasciato. Abbiamo capito che il benessere dei ragazzi a scuola è la cosa più importante e di dover puntare molto sulla relazione, sul legame che si crea tra insegnante e alunno, al di là dei contenuti disciplinari. È questo ciò che fa la differenza, più delle nozioni acquisite”.
Per i ragazzi, in un momento cruciale del loro percorso di crescita, la mancanza di socialità ha rappresentato una grave privazione. Come hanno reagito?
“Abbiamo notato che chi aveva alle spalle un contesto familiare e sociale che gli ha permesso di portare avanti interessi, passioni e con qualche limite anche attività sportive individuali, è riuscito a mantenere una certa lucidità. Forse è anche migliorato a livello di coscienza e responsabilità. Chi invece oltre alla scuola aveva poco altro si è rintanato in quel poco e tuttora sta faticando a riprendere una socialità in comunità. Questi casi non sono numerosi, ma sono aumentati e si sono aggravati”.
All’interno del mondo della scuola si sta diffondendo una maggiore attenzione al tema dell’inclusione, anche con l’introduzione della figura dell’educatore di plesso. In cosa consiste e che cambiamenti ha portato?
“Santarcangelo è stato il primo comune in provincia a introdurre questa figura, che permette di estendere le attività dell’insegnante di sostegno previste dalla legge 104 a contesti più ampi, come risorsa per la classe e per la scuola. Prima, ad esempio, quando lo studente che ne usufruiva era assente, l’educatore non veniva a scuola, perché la sua prestazione era prettamente legata a quel ragazzo. Ora l’educatore è sempre presente, perché ha dato vita ad un percorso educativo continuativo che riguarda l’intera classe”.
Secondo lei che tipo di scuola potrà rispondere ai bisogni degli studenti e delle famiglie di domani?
“Una scuola capace di rispondere al bisogno di relazione dei nostri ragazzi, di offrire esempi di adulti di rifermento motivanti e significativi. Una scuola che rappresenti una guida, un faro. Tutti noi trasmettiamo qualcosa più con il nostro comportamento che con le parole: i ragazzi hanno bisogno di coerenza e di insegnanti solidi, con i quali stabilire una relazione di fiducia, di persone che si interessino al loro benessere, non solo ai loro voti. E poi una scuola orientativa, in grado di tirare fuori i talenti e le inclinazioni degli studenti, di individuare le potenzialità da esaltare, i punti forti ma anche quelli deboli: spesso per le famiglie non è facile accettarli, ma riuscire meno bene in alcuni ambiti è normale e offre la possibilità di migliorarsi. La scuola è il nucleo fondante della società, per questo richiede un investimento, dal quale dipende la responsabilità di avere o meno dei cittadini democratici, degli adulti dotati di pensiero critico, persone che in futuro potranno fare la differenza”.